Blog

Luglio 8, 2020

La “Malattia dei Cannibali”: una malattia da Nobel

Nel 1976 Baruch S. Blumberg e D. Carleton Gajdusek, entrambi statunitensi, furono insigniti del premio Nobel per la medicina “per le loro scoperte sui meccanismi di origine e diffusione delle malattie infettive”. Al primo venne conferito il prestigioso premio per aver identificato, una decina di anni prima, quello che inizialmente fu definito “antigene Australia” (l’antigene di superficie del virus dell’epatite B, o HBsAg) nel siero di un aborigeno australiano, durante una delle sue ricerche sull’ittero ai National Institutes of Health presso i quali lavorava. Il secondo, invece, venne premiato per le ricerche effettuate sul kuru, la “malattia dei cannibali”.

Cenni storici

Nel 1955 Vincent Zigas, un medico, decise di approfondire le cause di un anomalo incremento di una patologia neurologica che sembrava colpire esclusivamente alcune tribù di indigeni della Nuova Guinea, politicamente divisa tra lo stato della Papua Nuova Guinea e le provincia indonesiane della Papua e della Papua occidentale.

Nel 1957, a causa di un aumento ancora più consistente del fenomeno e del timore di una nuova epidemia, il dottor Zigas e un collega, il dottor Gajdusek, si recarono nella zona maggiormente colpita per studiare sul campo il misterioso morbo. Per compiere le loro ricerche, i due medici presero in esame la tribù indigena dei Fore, una antica tribù della Papua Nuova Guinea piegata da anni dalla misteriosa malattia: i membri della tribù la chiamavano “kuru”, ossia “tremore” o “brivido”, in riferimento ai tremori caratteristici della patologia.

La tribù dei Fore era da tempo conosciuta dagli antropologi per una raccapricciante usanza dei sui membri. Gli indigeni Fore praticavano il cannibalismo funerario. Quando un membro anziano della tribù passava a miglior vita, il corpo veniva anzitutto sepolto per alcuni giorni in attesa che venisse infestato dai vermi saprofagi. Passato il tempo necessario, il defunto veniva riesumato e solo a quel punto era pronto per essere smembrato, cotto e servito con i vermi a mo’ di contorno, in segno di rispetto e lutto. Inoltre ne prelevavano il cervello e ne facevano una “vellutata”, che veniva prontamente consumata dalle donne e dai bambini con l’intento di trasmettere l’esperienza dell’anziano alla futura prole e alla gioventù della tribù.

Sebbene nel rapporto che Zigas e Gajdusek pubblicarono sul Medical Journal of Australia sul finire del 1957 si affermasse che non erano ancora state determinate le variabili etniche e/o ambientali che influenzavano la patogenesi e il decorso del kuru, era chiaro che la patologia avesse natura genetica e fin da subito i rituali cannibalistici della tribù vennero sospettati di esserne la causa.

La conferma si ebbe negli anni a seguire quando il dottor Gajdusek, una volta tornato negli Stati Uniti dalla spedizione in Papua Nuova Guinea, condusse una serie di test sugli scimpanzé presso i National Institutes of Health. Gli esperimenti, che gli valsero poi il premio Nobel per la medicina, consistevano nell’introdurre dei campioni di materiale cerebrale direttamente negli scimpanzé e documentare l’eventuale insorgenza della patologia e il relativo decorso. Fu così che nel 1959 uno scimpanzé (Daisy) sviluppò il kuru, dimostrando che un “fattore di malattia” sconosciuto poteva essere trasmesso da un soggetto ad un altro attraverso del materiale biologico infetto; l’esito degli esperimenti (effettuati prevalentemente con materiale cerebrale) permise anche di spiegare il motivo per cui la malattia fosse più diffusa fra le donne e i bambini, o analogamente il motivo per cui le donne e i bambini avessero una probabilità fino a 8 o 9 volte maggiore di sviluppare la patologia: di norma, le donne e i bambini consumavano il cervello e i visceri, mentre gli uomini consumavano i muscoli. Si dovettero tuttavia aspettare gli anni ‘80 affinché si identificasse l’agente eziologico del kuru: il prione. E no! Non è una particella subatomica.

I prioni

La proteina prionica (PrP, Prion related Protein = proteina legata ai prioni), o semplicemente prione (dall’inglese prion, acronimo di proteinaceous infective only particle = particella infettiva solamente proteica o portmanteau di protein e infection = proteina e infezione) è tecnicamente un isomero conformazionale di una glicoproteina – il cui ruolo fisiologico è tuttora oggetto di dibattito – normalmente espressa sulla superficie di tutte le cellule nucleate e maggiormente sulle cellule nervose. In pratica si tratta di una proteina misfolded (= mal ripiegata) dotata della inusuale capacità di trasmettere la propria forma anomala a varianti normali della stessa proteina. Sin dalla sua prima identificazione nel 1982 quale agente eziologico della scrapie (una malattia neurodegenerativa che colpisce le pecore e le capre), l’importanza dei prioni appare legata alla loro natura proteica, che relega i prioni stessi ad agenti infettivi sprovvisti di acidi nucleici (DNA o RNA) e cioè privi della capacità di replicare e di trasportare informazione genetica. Eppure è stato dimostrato che i prioni sono agenti trasmissibili da un soggetto ad un altro e in grado potenzialmente di indurre malattia nei soggetti sani.

Prioni vs Virus

I prioni, inoltre, presentano numerose e sostanziali differenze con i virus: contrariamente a questi, i prioni non contengono acidi nucleici, non possiedono un capside (quindi nemmeno una morfologia definita a microscopio elettronico), non possono essere eliminati né con i disinfettanti, né con aldeidi (es. formaldeide) o acidi forti, né con il calore, tantomeno con alti livelli di radiazioni ionizzanti o ultraviolette; inoltre i prioni non sono responsabili di effetti citopatici evidenti, non stimolano alcuna risposta immunitaria e/o infiammatoria, non inducono la produzione di interferoni, e la malattia da essi sostenuta può essere contraddistinta da un lunghissimo periodo di incubazione (anche > 50 anni). Infine, pur essendo proteine, i prioni sono resistenti alla maggior parte delle proteasi e ciò rende ragione dei caratteristici aggregati riscontrabili nelle cellule nervose dei soggetti affetti da una malattia da prioni e responsabili dell’aspetto vacuolizzato delle stesse: in sostanza si verifica un accumulo di aggregati prionici nei lisosomi delle cellule nervose che non può essere eliminato (il sistema ubiquitina-proteasoma e gli enzimi proteolitici non hanno effetto sui prioni) e che porta in breve a lisi cellulare o ad apoptosi, con la formazione a livello del SNC di moltissimi forellini microscopici che conferiscono al tessuto un aspetto che ricorda una spugna.

Malattie da prioni: una visione d’insieme

Le malattie da prioni sono rare patologie degenerative del cervello (e raramente di altri organi) progressive, letali e attualmente incurabili, che derivano dalla trasformazione di una proteina in una isoforma anomala (il  prione, appunto). Tutte le malattie da prioni umane conosciute influenzano la struttura del SNC o dei tessuti ad esso associati, e allo stato attuale la prognosi è sempre infausta.

Ad oggi si ritiene che i prioni siano la causa di una varietà di malattie neurodegenerative animali e umane note come encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE, Transmissible Spongiform Encephalopathy). Tra le TSE animali si ricordano la scrapie, la malattia del deperimento cronico del cervo, l’encefalopatia trasmissibile del visone, e una serie di encefalopatie spongiformi (dei felini, del dromedario, dello struzzo…) tra cui la più conosciuta – anche a causa dell’amplificazione mediatica che si ebbe durante un’epidemia che colpì la Gran Bretagna sul finire degli anni ’80 – è la encefalopatia spongiforme bovina o “morbo della mucca pazza”. Le TSE umane, invece, sono rappresentate dalla malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ), dalla variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob (vMCJ) che risulta dalla diffusione della encefalopatia spongiforme bovina in Homo sapiens, dalla sindrome di Gerstmann-Sträussler-Scheinker (MGSS), dall’insonnia familiare fatale (IFF) e, appunto, dal kuru.

La proteina prionica (PrP) responsabile delle encefalopatie spongiformi trasmissibili rappresenta la variante modificata, misfolded, di una proteina presente sulla superficie di tutte le cellule nucleate, ma espressa in maniera particolarmente abbondante a livello cerebrale. Si tratta di una proteina glicosilata (glicoproteina) codificata da un gene (il PRNP, Prion Protein Gene) situato sul braccio corto del cromosoma 20 dell’uomo, e formata da una singola catena polipeptidica di 231 amminoacidi e dalla massa molecolare di circa 33-36 kDa.

Kupfer, L; Hinrichs, W; Groschup, M.H. – “Prion Protein Misfolding”. Current Molecular Medicine. 9 (7): 826–835.

Per distinguere la PrP “normale” dalla PrP “anomala”, la forma fisiologica della proteina prionica è indicata come PrPc (= proteina prionica cellulare); al contrario, l’isoforma patologica è indicata come PrPsc (= proteina prionica della scrapie) o semplicemente come prione.

I due isomeri conformazionali PrPc e PrPsc non differiscono nella sequenza amminoacidica (che è uguale), ma differiscono nella loro struttura secondaria e terziaria, nella “conformazione”. La isoforma patologica è caratterizzata dalla prevalenza di β-foglietti, al contrario della forma fisiologica nella quale la struttura ad α-elica è predominante; in particolare la struttura della PrPsc è per il 43% circa a β-foglietto e per il 30% circa ad α-elica, mentre la struttura della PrPc è per il 43% circa ad α-elica e solo per il 3% circa a β-foglietto. Questa differenza rende la PrPc sensibile alle proteasi (e quindi suscettibile di completa proteolisi qualora sia in eccesso), e la PrPsc resistente alle proteasi e quindi dotata della tendenza a formare un numero sempre maggiore di aggregati prionici che depositandosi all’interno dei neuroni portano alle conseguenze sopracitate.

Le malattie da prioni possono essere:

  • Sporadiche, ossia possono manifestarsi spontaneamente senza una ragione nota;
  • Ereditarie, ossia a trasmissione familiare;
  • Acquisite, ossia associate a forme infettive.

Tutte e tre le tipologie sono comunque accomunate dalla presenza di una PrP mutata (misfolded) per qualche motivo: per una mutazione spontanea a carico della PrPc nelle forme sporadiche, o per un gene alterato nelle forme ereditarie, o per l’inoculazione nel caso delle forme acquisite. Le forme sporadiche sono le più comuni tra tutte le malattie da prioni umane e rappresentano l’85-90% dei casi.

Il processo che porta al cambio di conformazione della PrPc in PrPsc, nelle forme sporadiche e in quelle ereditarie e acquisite (in quanto in fondo dirette conseguenze della prima), non è ancora del tutto compreso, come non lo è d’altronde il ruolo della proteina normale nel nostro organismo. Si suppone che entrambi gli isomeri conformazionali di PrP rappresentino conformazionali stabili: la PrPc è la forma fisiologica, ma nello stesso tempo un poco meno stabile della PrPsc a causa della struttura più aperta per la presenza di un numero maggiore di segmenti ad α-elica; al contrario, la PrPsc rappresenta la isoforma patologica, ricca di segmenti a β-foglietto e pertanto più compatta e stabile. Di norma un’alta barriera di energia di attivazione impedisce la conversione spontanea di PrPc in PrPsc, ma la presenza di mutazioni sporadiche può facilitare il cambiamento verso la isoforma patologica.

Si è osservato inoltre che quando la PrPsc (introdotta dall’esterno o come conseguenza di una mutazione spontanea) entra a contatto con la PrPc interagisce con essa e ne promuove il cambio conformazionale dalla forma fisiologica alla isoforma patologica (misfolded), la quale a sua volta promuoverà la conversione di altre PrP da PrPc a PrPsc. Inizialmente le due forme sono in equilibrio e quindi la trasformazione è reversibile. Tuttavia mano a mano che la PrP misfolded forma un numero sempre maggiore di aggregati, l’equilibrio si sposta inevitabilmente verso la PrPsc con il risultato che in breve tempo tutta la PrPc sarà convertita in PrPsc. È stata anche avanzata anche l’ipotesi che nel passaggio da PrPc a PrPsc sia necessaria l’interazione con una proteina ancora sconosciuta della classe delle chaperones molecolari, che possa agire come “assistente” nel processo di folding (= ripiegamento della catena polipeptidica nelle struttura terziaria tipica della proteina presa in esame) per favorire la conversione da PrPc (proteina nativa, fisiologica) a PrPsc (isoforma patologica). Questi presupposti hanno permesso di classificare le malattie da prioni (id est delle encefalopatie spongiformi trasmissibili umane) fra le malattie da misfolding, cioè fra le amiloidosi in senso lato di cui – oltre alle malattie da prioni in cui la proteina aggregata è il prione – fanno parte anche la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson e la corea di Huntington nelle quali le proteine aggregate sono rispettivamente la β-amiloide, l’α-sinucleina e la huntingtina.

Kuru

Sappiamo ora che il kuru era una grave forma di encefalopatia spongiforme trasmissibile, una patologia neurodegenerativa incurabile e fatale, fortunatamente rara e causata dalla trasmissione di proteine misfolded (i prioni) da un soggetto ad un altro attraverso pratiche di cannibalismo funerario.

Ricerche storiche hanno suggerito che l’epidemia di kuru potrebbe aver avuto origine intorno al 1900 da un singolo individuo che viveva ai confini del territorio Fore e che si pensa abbia sviluppato una qualche forma sporadica della malattia di Creutzfeldt-Jakob. Ulteriori ricerche hanno dimostrato in modo conclusivo che il kuru si diffuse facilmente e rapidamente (a partire, almeno, dal 1910) tra le tribù indigene della Nuova Guinea – in particolare all’interno della tribù Fore – a causa delle loro tradizioni cannibalistiche; ancor prima che il cannibalismo rituale fosse collegato al kuru, questa pratica fu bandita dall’amministrazione australiana e fu definitivamente abbandonata nei primi anni ’60. L’epidemia da kuru subì una rapida frenata negli anni a venire, ma la malattia persistette fino agli anni 2000 a causa del lunghissimo periodo di incubazione (anche > 50 anni); l’ultima vittima di kuru conosciuta pare sia morta nel 2005 o nel 2009, a seconda delle fonti.

Sintomi

Il kuru era, in quanto encefalopatia spongiforme trasmissibile, una malattia del sistema nervoso e tra i sintomi più evidenti si annoveravano la perdita di coordinazione e controllo sui movimenti muscolari e tremori (da cui il nome).

La fase preclinica o asintomatica, che corrisponde al periodo di incubazione, aveva una durata media di 10-13 anni, ma poteva essere di soli 5 anni così come superare i 50 anni. La fase clinica invece, che iniziava alla prima insorgenza dei sintomi, aveva una durata media di 12 mesi.

Grazie agli studi compiuti sul campo da Gajdusek, è stato possibile suddividere la progressione clinica del kuru in tre stadi sintomatologici principali: ambulante, sedentario e terminale, che conducono alla morte entro tre mesi o due anni dalla comparsa dei sintomi.

  • Nello stadio ambulante, preceduto o meno da sintomi prodromici tra cui mal di testa e dolori articolari, il soggetto può presentare postura e andatura instabili, perdita o riduzione della coordinazione muscolare soprattutto a livello degli arti, tremori, difficoltà a pronunciare parole (disartria) e titubazione. Questo stadio è chiamato ambulante perché l’individuo è ancora in grado di camminare nonostante i sintomi.
  • Nello stadio sedentario, il soggetto non è in grado di camminare senza supporto e soffre di atassia e tremori gravi. Inoltre, l’individuo mostra segni di instabilità emotiva e depressione, accompagnati da risate incontrollate e sporadiche e da un rallentamento dei processi cognitivi.
  • Nello stadio terminale, i sintomi progrediscono al punto in cui il soggetto non è più in grado di sedersi senza supporto. Emergono anche nuovi sintomi: l’individuo sviluppa disfagia o difficoltà a deglutire, che può portare a grave malnutrizione, e può o meno diventare incontinente e/o perdere la capacità o la volontà di parlare nonostante mantenga la coscienza. Poco prima della morte, il soggetto sviluppa spesso profonde ulcerazioni che possono essere facilmente infettate.

Resistenza al kuru

Nel 2009, alcuni ricercatori del Medical Research Council hanno scoperto, nelle persone che vivevano nella regione della Papua Nuova Guinea in cui era epidemico il kuru e che sono sopravvissute, una variante naturale del gene della proteina prionica (G127V) che conferisce una forte resistenza al kuru stesso. Il polimorfismo G127 è il risultato di una mutazione missenso, che è stata mantenuta di generazione in generazione sotto la spinta della selezione, ed è caratteristicamente limitato alle regioni in cui l’epidemia di kuru era la più diffusa. Insomma: un caso affascinante di applicazione dei principi darwiniani della selezione naturale.

 

Simone Brocchi

 

Sitografia

 

Bibliografia

Neurologia, Virologia
About Simone Brocchi
Da sempre appassionato di scienza, dopo il diploma di liceo scientifico ho deciso di intraprendere il mio percorso universitario in campo sanitario. Ad oggi sono iscritto al corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell'Università di Ferrara e collaboro con diversi gruppi nell'ambito della divulgazione.

Condividi il tuo pensioro